mercoledì 31 maggio 2017

Accordo sul clima: che succede se Trump dice NO

Nelle ultime ore rimbalzano anticipazioni sulla volontà di Donald Trump di recedere dal Paris Accord, l'accordo sul clima siglato alla COP21 di Parigi nel dicembre 2015, ratificato da Barack Obama il 3 settembre 2016 ed entrato formalmente in vigore il 4 novembre dello scorso anno. Secondo l'accordo gli Stati Uniti si impegnano a ridurre le proprie emissioni del 26-28 percento entro il 2025 rispetto ai dati del 2005.
Lo stesso Trump, con uno dei soliti tweet, ha annunciato che la decisione verrà presa nei prossimi giorni. Fonti vicine alla Casa Bianca insistono che la scelta sarà quella di annullare gli impegni USA sul clima, ma la strada per andarsene è piuttosto complicata. L'Accordo di Parigi è vincolante per tre anni dalla data di entrata in vigore (4 novembre 2016). L'amministrazione Trump dovrebbe comunque rispettare gli impegni fino al novembre 2019, per poi comunicare la propria volontà di recessione. Il processo di uscita prevede un anno di tempo, quindi l'America uscirebbe formalmente dal trattato nel novembre 2020, ovvero un mese prima della scadenza del mandato di Trump e in concomitanza con le elezioni presidenziali, in programma il 3 novembre 2020. Il tema dei cambiamenti climatici sarebbe al centro della campagna elettorale e delle primarie, che prendono il via in Iowa a febbraio 2020.
Secondo i sondaggi il 54 per cento degli Americani considera il cambiamento climatico come "un problema serio". Quasi tutte le grandi città, New York in testa, hanno improntato piani ambiziosi per la riduzione delle emissioni e la riconversione energetica. Lo stesso hanno fatto molti stati, a partire dalla California. L'industria americana sta puntando vigorosamente sulle energie rinnovabili e il risparmio energetico, settori che stanno producendo un aumento significativo in termini di occupazione. Tesla, malgrado venda poche decine di migliaia di auto elettriche, a Wall Street ha una capitalizzazione di 53 miliardi di dollari, superiore a quella di General Motors e Ford, che ne vendono milioni.
Ad oggi le uniche due nazioni al mondo che non hanno ratificato l'Accordo di Parigi sono Nicaragua e Siria. Gli Stati Uniti non sarebbero esattamente in buona compagnia. Inoltre recedere dall'accordo significherebbe lasciare grandi spazi alla Cina, che sulle energie rinnovabili sta facendo investimenti colossali. E non c'è solo Pechino: l'Europa, la rampante India e tutte le economie in crescita di Asia, Sud America e Africa hanno scommesso sulla riconversione energetica. Solo la Russia sembra mantenere un distacco, forte delle sue risorse di gas naurale e petrolio.
Naturalmente l'abbandono degli Stati Uniti indebolirebbe l'Accordo di Parigi, ma un effetto domino sembra improbabile. Il problema prinicipale sarebbe certamente quello del fondo destinato ai paesi in via di sviluppo, che secondo l'Accordo di Parigi dovrebbe raggiungere i cento miliardi di dollari entro il 2020. Oggi gli Stati Uniti contribuiscono con 50 milioni di dollari l'anno. Ma le conseguenze più gravi le pagherebbe l'economia americana, marginalizzata e costretta a subire l'egemonia cinese e la concorrenza europea. Non saranno certo le miniere di carbone di Wyoming, West Virginia, Kentucky e Pennsylvania a mantenere l'America competitiva sul mercato mondiale dell'energia. Ma sono gli stati che hanno permesso a Donald Trump di vincere la presidenza.
Le indiscrezioni dicono che i consiglieri di Trump sono divisi in due fazioni. Tra i favorevoli a mantenere l'accordo la figlia Ivanka e suo marito, tra i ferocementi contrari Stephen Bannon. L'impulsivo Trump ha per una volta tergiversato, rinunciando a prendere posizione sia alla sessione di negoziati sul clima di Bonn che al G7 di Taormina. Adesso sembra che la decisione sia imminente.

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