domenica 15 novembre 2009

Perché Copenhagen resta cruciale

Una parte della stampa mondiale ha diffuso oggi articoli allarmati e allarmanti sulla decisione di non raggiungere un accordo mondiale definitivo sul clima alla prossima COP-15 di Copenhagen. In Italia ad esempio lo ha fatto Repubblica, che parla addirittura di "vertice declassato".
Tutto nasce dagli esiti del summit Asia Pacific Economic Cooperation concluso oggi a Singapore (foto e dichiarazione finale del meeting). Questa mattina a Singapore i leader di Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia, Messico, Australia e Indonesia si sono incontrati con il premier danese Rasmussen, arrivato per l'occasione. "Valutato il fattore tempo e viste le posizioni delle singole nazioni nelle settimane che restano dovremo concentrarci su ciò che possiamo fare e non farci distrarre da quello che non è possibile" ha detto Rasmussen aggiungendo che "l'accordo di Copenhagen dovrà affidare un mandato per continuare i negoziati e fissare una data per la loro conclusione".
I punti controversi restano quelli che Sostenibilitalia ha già descritto in precedenti post: stabilire i limiti di emissione per i paesi OCSE e quelli emergenti e quantificare l'intervento economico dei paesi industrializzati per finanziare la riconversione energetica nelle nazioni in via di sviluppo. Sapevamo da tempo che questo non sarebbe stato deciso a Copenhagen, dove in ogni caso i bizantini regolamenti ONU impedivano di ratificare un impegno formale o legally binding, termine usato nei tavoli negoziali. Ecco perché non trovo tragiche le notizie che arrivano da Singapore, che non fanno che confermare quanto già circolava nei corridoi.
Gli esiti interlocutori delle sessioni di negoziati di Bonn, Bangkok e Barcellona degli ultimi sei mesi avevano chiarito che il miglior risultato realisticamente possibile alla COP-15 sarà un high level agreement, da ratificare in un secondo momento. Da tempo si parla di una "COP 15 e mezzo" o COP 15.5 che potrebbe svolgersi a metà 2010, presumibilmente a Bonn in giugno, e che dovrebbe esserre il punto di arrivo del mandato breve affidato a Copenhagen. Questa soluzione sembra già migliore di quella che circolava mesi fa, quando i pessimisti rimandavano il tutto alla COP-16 in Messico a dicembre 2010.
Ieri intanto Sarkozy e Lula hanno annunciato un accordo importante sui temi del clima. La Francia ha confermato la volontà di ridurre le emissioni dei paesi industrializzati dell'80% entro il 2050, il Brasile ha annunciato che ridurrà le emissioni di gas serra tra il 36,1 e il 38,9% entro il 2020. Sarkozy ha anche detto di voler prendere parte al vertice del Commonwealth a Tobago per cercare proseliti nell'universo post coloniale inglese, che per un Francese è uno sforzo non da poco.
In tutto questo naturalmente pesano ruoli e ambizioni politiche. La Francia vuole mantenere una leadership europea, con posizioni che scavalcano quele tedesche e inglesi. Obama non può sbilanciarsi prima del passaggio del climate bill al senato americano, che però lo voterà solo il prossimo anno. In oriente la Cina sta investendo molto più dell'occidente sulla riconversione ma politicamente non cede sulla differenza tra paesi industrializzati e in via di sviluppo. La Danimarca spera ancora che l'accordo post-Kyoto possa chiamarsi Protocollo di Copenhagen e cerca di mediare tra i grandi protagonisti per battezzare il patto. L'Italia ha troppo da fare per evitare i processi al premier per occuparsi di questi dettagli.
La cosa più importante - ha detto giorni fa Al Gore al Washington Post - è che gli esiti di Copenhagen siano percepiti come un'importante passo avanti. Su questo io continuo ad essere moderatamente ottimista.

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